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Un missionario nelle favelas delle Filippine

Un missionario nelle favelas delle Filippine

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Un missionario nelle favelas delle Filippine

MANILA – Il fax di Nostro Signore arrivò puntuale come la Provvidenza. Padre Giovanni si era già rivolto inutilmente perfino al cardinale Sin, arcivescovo di Manila: chiedeva i soldi necessari a ricostruire la missione fra la smokey mountain (la «montagna fumante» di rifiuti) e le palafitte del porto spazzate dai cicloni. Niente da fare. Ci volle invece il fax di Nostro Signore, a riprova dell’amicizia intima tra il missionario e l’Altissimo, perché cominciasse l’avventura di padre Gentilin a Tondo. Era il 1989, e quel fax valeva molto più dei 500 mila pesos necessari a rifare il tetto sgangherare della chiesa.

 

Nella terra di nessuno
Difficile illustrare quel che basterebbe l’olfatto a descrivere. Tondo è un quartiere che vive e muore attorno a una gigantesca discarica, un balordo e pittoresco ammasso di fango e detriti sceverati e rivenduti da schiere di straccioni alle gang del riciclo. La montagna fumante è casa e bottega per migliaia di filippini che traggono briciole quotidiane di sopravvivenza da ciò che per gli altri è solo il cascame della vita: la spazzatura. I bambini ci frugano dentro, infilano in sacche più grandi di loro il ferro e la plastica che riescono a racimolare.

 

In questo inferno di putrefazione e malattia padre Giovanni Gentilin, 65 anni, missionario dell’ordine dei canossiani fondato da suor Maddalena di Canossa, discendente di Matilde, dirige parrocchia e sanatorio. Nato ad Arzignano (Vicenza), dove le concerie impiegano il 20 per cento di manodopera extracomunitaria, padre Giovanni accudisce a Manila 100 mila anime. Uomo tenace: è sopravvissuto all’enfisema polmonare, alla febbre deng trasmessa da una zanzara tigrata che provoca devastanti emorragie interne, ai 400 metri di distanza dalla smokey mountain «calcolati direttamente con il mio motorino», alla rabbia di vedere i mocciosi morirgli tra le braccia di Tbc e meningite fulminante e le ragazze orfane costrette a prostituirsi per mantenere i fratellini. Si sforza di migliorare la vita dei suoi parrocchiani facendoli studiare, aiutandoli a produrre gelato e pasta «Canossa», prodotti italiani doc, con la complicità di Nostro Signore, del quale conosce pure il numero di telefono: «6163, sei uno sei tre!».

 

La parrocchia da resuscitare
Uno e trino. Danno tutti del tu a padre Giovanni, «perché io do del tu al Padreterno e non sono certo più importante di Lui». Nel 2003 gli diedero del tu anche i guerriglieri comunisti, lo minacciarono. Lui li redarguì senza lasciarsi intimidire: «Con quale coraggio voi comunisti venite a chiedere soldi ai poveri di Tondo?». Fu il cardinale Jaime Sin (che in inglese significa «peccato») ad affidargli la resurrezione della parrocchia abbandonata dai frati irlandesi nell’89. «La chiesa era una stalla, durante le piogge dicevamo messa con gli stivali – ricorda padre Giovanni -. Quando servirono 500 mila pesos per rifare il tetto, il cardinale ci mandò con una sua lettera dall’economo della diocesi, e da questi alla filiale della banca che ci offrì un prestito con interessi al 24 per cento!». Da ragazzo il missionario aveva preso i voti dopo una scazzottata sull’altare della chiesa di Arzignano e per tredici anni era poi stato nella trincea di una borgata romana. Figurarsi se poteva perdersi d’animo per un rifiuto.

 

La lingua di Manila
Uomo tenace, si diceva. Voleva raggiungere l’obiettivo e non intendeva darsi per vinto: «Salendo sul motorino dissi a padre Stefano: lascia stare questi della banca, chiameremo come garante il Padreterno». Al rientro, trovarono il fax. Sentite la storia: «Leggo, rileggo… Stentavo a credere ai miei occhi. Un industriale dello sci di Treviso aveva inviato una cifra alla nostra banca di Manila in memoria della figlia persa in un incidente. Prendo la calcolatrice: erano esattamente 500 mila pesos!». Un’altra volta Nostro Signore si fece vivo per posta. Ricorda ancora padre Giovanni: «Venimmo a sapere che tre ragazze con i genitori malati e niente soldi per comprare le medicine volevano prostituirsi negli alberghi di lusso di Manila. Due giorni dopo tre famiglie di Saint-Vincent, miei conoscenti dell’oratorio, mi chiesero di adottare giusto giusto tre ragazze. Oggi sono tutte diplomate, due hanno perfino messo su famiglia».

 

Padre Giovanni parla la lingua di Manila, il tagalog: «Me la sono fatta insegnare dai bambini perché loro hanno un linguaggio semplice che raggiunge l’interlocutore senza alcuna mediazione». In molti devono al sistema delle adozioni a distanza la possibilità di studiare e farsi curare dai numerosi malanni che vengono contratti facilmente in uno degli ambienti più inquinati del pianeta. «La miseria non si vince dando da mangiare, ma creando cultura», insiste il missionario. Le sue omelie sono indicazioni chiare come il libretto delle istruzioni per l’uso: «Se avete due mattoni fateci il bagno, perché è dal bagno che si vede la dignità di una casa».

 

Milletrecento minori poverissimi e provenienti da famiglie spesso analfabete riescono ad andare a scuola grazie alla generosità degli italiani: negli ultimi 16 anni 760 di loro si sono diplomati e oggi hanno un lavoro, una famiglia, qualcuno si priva addirittura di una parte dello stipendio per adottare a sua volta un bambino. L’esperienza fa scuola ed educa. Così, persino in mezzo ai miasmi e agli orrori della cernita dei rifiuti, i piccoli di Tondo ti sorridono e, spontanei, ti prendono la mano per mettersela sulla fronte, un gesto che da queste parti indica riconoscenza.

 

Sangue e nutella
Sono ragazzini costretti a capire le difficoltà della vita con grande anticipo rispetto ai coetanei di altre più fortunate parti del mondo. Come Erlindo, 10 anni, quasi un figlio per padre Giovanni: «Si ammalò di deng. Di nascosto gli portai in ospedale un vasetto di nutella. Guarì, mi ammalai io. Erlindo non aveva dimenticato. Indossò il vestito delle feste, si pettinò, si ripulì tutto e me lo ritrovai in ospedale che porgeva il braccio agli infermieri dicendo: vorrei donare il mio sangue per padre Giovanni…».

 

Ogni anno il missionario accompagna 200 bambini a sei chilometri da Tondo nel parco che nel ’95 ospitò Giovanni Paolo II e milioni di giovani: «Immancabilmente mi chiedono: padre, ma qui siamo all’estero?». Un giorno il frate diede a un pedalatore di risciò i soldi per un motore: l’uomo risparmiò, smise di bere e picchiare la moglie, cambiò vita. I figli oggi mangiano invece di sniffare colla contro la fame. Ma il vero sogno di padre Gentilin è veder sparire la smokey mountain nelle fauci di uno di quegli inceneritori che a Manila sono ancora vietati. «La montagna fumante dà posti di lavoro», si scusò una volta il sindaco. Ma, soprattutto, the mountain significa una montagna di voti in cambio di pesos. Padre Giovanni non dispera di convincere un giorno il Padreterno a votare a Tondo, per corrispondenza. E allora tutto cambierà.

 

Marco Ventura (La Stampa)

 

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